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Questo articolo è frutto di una bellissima discussione nata a margine di una lezione sui motori di ricerca tenuta agli studenti del corso di e-business dell’Università Di Venezia. Una lezione da cui sono uscito con più domande che risposte, nemmeno una domanda su un tema che io stesso fatico a snocciolare, ed un senso di disorientamento attorno a un mondo forse troppo complesso, forse troppo lontano.

Il maggior valore che porto a casa da questa giornata è un ragionamento sul futuro, un futuro in cui non c’è tempo per gli indignati e la politica, in cui le start up “all’americana” troppo spesso arrancano nelle difficoltà, eppure rappresentano l’elemento di novità, il quid dirompente (ma alcuni stanno già pensando al futuro artigiano applicato al web). Figuriamoci un futuro in azienda, in agenzia, da consulenti.

Non sono mai stato troppo affascinato dal modello artigianale, quello che però oggi ho avuto modo di dibattere con Stefano Micelli (autore proprio di Futuro Artigiano) e l’amico Alberto Pasinati, (studioso di dinamiche di marketing e internazionalizzazione) è un tema diverso: quale sarà il futuro del nostro lavoro?

Spiace dirlo ma il modello consulenziale si rincorre, le aziende comprano strumenti ma dettano obiettivi, i clienti troppo piccoli sanno di grafica, codice, seo, sem più di te e ti bacchettano sull’analytics appena diventa rosso. E’ una svendita al massacro dell’ultima piattaforma di reputation o dell’ottimizzazione delle video sitemap. Mi dispiace non ci sto, il breve periodo può essere figlio di un’economia dell’operatività, di un’azienda di servizio in cui sei pagato per customizzare codice o raccontare una storia che sia anche visibile ai motori di ricerca, ma il futuro? Chi sta facendo i soldi ora? I baluardi sono pochi ma pesantemente radicati: sono produttori, laboratori alimentari, commercianti di prodotti unici o vere e proprie eccellenze del mondo manifatturiero, dalle porte ai vestiti. In un paese che non cresce, come possono crescere i giovani in cui brilla un barlume di ambizione? Siamo sicuri che la durezza di Steve Jobs e Mark Zuckerberg sia davvero il modello di foolish cui vogliamo aspirare? Siamo in grado di sopportare e supportare l’economia degli squali? Il nostro tessuto imprenditoriale non è fatto per questo. Quando ci definiamo sarti del web le nostre parole trasudano un sogno che solo 1 volta su 10 vede applicazione in azienda, il più delle volte applichiamo la stesa creatività di un revisore che riclassifica il bilancio, almeno lui ha modo di infossare due indici.. Questo non è un lamento ma un dato di fatto, il pericolo di ridurre un’attività di digital PR al “mendicare una citazione” e un’ottimizzazione SEO alla modifica di codice al servizio di arroganza e ignoranza nel breve periodo è troppo grande per poterci permettere di fare scala.

Come salvarsi? Come perseguire l’unicità e l’autenticità? Ogni consulente che si rispetti ha le proprie case history, si affeziona a qualche cliente in particolare, percepisce che “quei 4” faranno strada, e forse anche l’advisor è una figura vera, che nel medio periodo rischia però di essere risucchiato nel sistema, come quelle agenzie, non una sola, di consulenza strategica destinate a combattere a sangue in gare replicate e replicanti e ad eventi attualissimi cui comunque non si può non partecipare, ma ove in realtà il valore vero al di la della marchetta sta nel networking che si sviluppa, e dio benedica questo residuo di umanità. Molto meglio è andata al KnowCamp dove un dibattito si è generato, ma dove l’analfabetismo delle nuove leve e l’incertezza nell’offerta sono emerse lucenti come neve al sole.

Quale soluzione? La chiave sta nell’alleanza tra la competenza tecnica e strategica che sbandieriamo e le imprese, quelle 4, che hanno una marcia in più. La GDO, i grandi mondi, le reti commerciali, hanno dinamiche troppo dure da scalfire perché un consulente o un’agenzia ne cambi la mentalità, ed anche le case history di questo tipo appartengono a sub progetti, micro brand, budget residuali e infinitesimali, quanto pesa il più grande social network aziendale italiano nel budget di quell’azienda? Purtroppo troppo poco.

Non è forse meglio allearsi con 4 aziende, aprire 4 società con loro, vendere porte on line e off line, o promuovere le ricette di pesce o risolvere problemi di capelli? Non ha forse più senso partire da bisogni reali anziche costruirli? Abbiamo strumenti avanti 5 anni rispetto alla capacità dei nostri clienti di comprenderli, ed il first mover o first shifter che prende tutto non può giustificare una schiera di lamentele da clienti che non sono nella tua stessa linea d’onda. Nel breve periodo va tutto bene, con la formazione come antidoto, ma nel medio e lungo cosa faremo? Secondo noi la strada è quella di pochissimi progetti in cui l’azienda da tutto e l’agenzia fa la sua parte, rischio d’impresa condiviso e compreso.

Non so se questa via sia praticabile ma comincio a dubitare che con il web marketing si diventi ricchissimi al netto di ore lavoro giornaliere che non sono mai 8, forse aiutare chi ha un asset di prodotto, distributivo e di comunicazione radicato ha più senso che lanciare un e commerce dal nulla e vendere una DEM profilata.

Poi tutti dobbiamo mangiare, ma lavorare con soddisfazione è altra cosa. Comincio a pensare davvero che i nostri giovani dovrebbero guardare ai vulcani pronti ad eruttare (le aziende 1.0 che hanno ancora tanto da dare) più che ai web geyser troppo fugaci per restituire valore strutturato.

Spero che questo articolo venga preso con la giusta propositività nel porre temi di lungo periodo, non certo come una lamentela di breve di chi, al di la di tutto, il consulente lo fa ancora volentieri.

 
 
AUTORE

Giorgio Soffiato

Markettaro per passione, dal 1983. Mente creativa e progettuale dell'azienda, fa chilometri e supera ostacoli in nome della rivoluzione arancione chiamata Marketing Arena. Cavallo Pazzo.
 
 

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