Osservando i dati a livello macroeconomico di Pil pro-capite e crescita, relativi agli ultimi anni post crisi, quel che appare chiaro è che se alcune nazioni a differenza di altre, e nello specifico, se alcune aziende più di altre, stanno ottenendo risultati economici positivi, qualcosa è cambiato.
Radicalmente cambiato.
A mio avviso si potrebbero prendere i tomi di economia e di gestione delle imprese degli ultimi cent’anni (non me ne vogliano Smith, Porter o Barney) e metterli da parte. Affermazione molto pesante, lo so, ma è inevitabile sganciarci dall’economia del novecento per capire ed interpretare quella del nuovo millennio.
Le premesse implicite su cui capitani d’industria e analisti del mercato hanno fondato da sempre le proprie visioni e strategie aziendali devono essere infrante, spodestate e ristrutturate.
Le aziende che hanno iniziato a fare risultati positivi infatti, sono quelle che con maggiore flessibilità hanno disegnato i propri modelli organizzativi e di business osservando tendenze del mercato, mentre altre stanno iniziando a ristrutturare e sdoganare alcuni tabù.
Alcune idee che a mio modesto avviso possono aiutare a cambiare il tipo di approccio con cui il management deve guardare l’azienda e l’ambiente in cui la stessa è player sono Open Management, implementato a 360° in un’ottica di lungo periodo e Consumer Empowerment (ma si potrebbe parlare anche di Share Economy, Economia della Felicità, Makers o Futuro Artigiano, ed altri trend che stanno impattando molto nel panorama nazionale, ed internazionale).
Mentre del primo ne avevamo già discusso in precedenza, del secondo si può fare un ragionamento veloce, dato anche il periodo post elettorale in cui siamo attualmente.
Quando si parla di Consumer Empowerment è utile tenere ben presente l’idea che il consumatore decide più con il carrello della spesa che in cabina elettorale. In altri termini, le persone possono esercitare la democrazia anche fuori dai recinti in cui questa è pubblicizzata, ed al tempo stesso influiscono anche sulle performance delle aziende (come la storia ci insegna del resto).
In ogni caso, la differenza sostanziale è che ora le persone hanno i mezzi a disposizione per esprimersi, e quindi le aziende devono attrezzarsi per ascoltare, capire, dialogare ed implementare i suggerimenti. Occorre dunque un cambio di prospettiva che coinvolga l’azienda sia all’interno di se stessa sia nel rapporto con l’esterno.
Concludo riportando la teoria di management che forse, più di altre, esprime questa filosofia di cambiamento, tant’è che coloro che l’hanno adottata sono paesi come Germania e Giappone, due casi d’eccellenza in termini di management aziendale.
La visione occidentale dell’azienda e del suo profitto è quella definita Property Theory (teoria della proprietà), in cui l’obiettivo è definire e ricavare (contabilmente per esempio) i numeri in riferimento alla ricchezza dei soci proprietari, intesi come valore delle azioni (delle quote sociali) e utili ritenuti in azienda.
Si fa, e si crea dunque, per portare ricchezza alla proprietà.
Il secondo modello invece, più di matrice orientale, è definito Equity Theory (teoria dell’equità) e va ad indicare la ricchezza dell’azienda (intesa come somma degli asset) come il patrimonio di diversi stake-holder (portatori di interesse), che non siano solo i proprietari. In questa visione dunque, si percepisce l’azienda come un soggetto attivo nell’ambiente, la cui crescita è un’interesse di tutti, ed il profitto quindi amplia il proprio significato, e diventa bene sociale, e tutti quindi sono interessati a performare nel migliore dei modi.
Il perché dell’immagine?
Guardate i colori e pensateli ad Henry Ford, Toyota, oggi.