Crisi. Una brutta parola che fotografa una realtà inequivocabile. Ieri ho avuto l’occasione di fare una bella chiacchierata con un top manager e un docente universitario, egualmente illuminati. L’esperienza è stata interessantissima perché al solito è in queste (rare) occasioni che emergono spunti che la quotidianità non ci permette di cogliere. Il tema del giorno era la natalità delle imprese, un tema che vede le start up come parte di certo integrante, ma non unica. Infatti non ne parleremo. Il punto più interessante che si è toccato è quello dei Knowledge intensive business services, anche detti KIBS.
La tesi degli studiosi dei KIBS è chiara: esistono delle realtà ad alto tasso di innovazione e conoscenza che offrono servizi alle imprese e con le stesse intraprendono un rapporto di pesante contaminazione che è difficilmente incasellabile nella classica rete di fornitura. Da questo punto di partenza si è giunti ad analizzare l’anatomia di queste aziende, molto spesso giovani e grintose, ma al tempo stesso inesperte e con le spalle ancora troppo piccole per affrontare tutte le sfide che il mercato (soprattutto questo mercato) ogni giorno propone. Una delle soluzioni che aiutano le nuove aziende, siano esse start up o meno, è il ricorso alla figura del saggio aziendale. Una competenza nuova, che in alcune realtà è definita “partner” (anche se questo ruolo è di solito più un riconoscimento che una competenza) che ha un compito ben specifico: guidare le aziende nella gestione di quelle dinamiche che caratterizzano l’imprenditorialità in generale al di la di uno specifico settore, e mi riferisco alle problematiche gestionali, amministrative, delle risorse umane etc.. Spesso il saggio non conosce questi nuovi mercati, ma questo non è necessario, la gestione aziendale ed i problemi che questa presenta sono spesso molto simili e l’esperienza acquisita negli anni da questi mentor è preziosissima.
Perché parlare di opportunità? Questi mentor, questi saggi, sono oggi figure molto più disponibili sul mercato di un programmatore iOS o di un social media strategist, perché sono figure che spesso stanno cercando di reinventarsi dopo esperienze imprenditoriali finite male o semplicemente dopo che aziende con una storia pluriennale hanno concluso il proprio ciclo vitale. Le (poche) nuove aziende solide e sane che vanno nascendo potrebbero trovare in queste figure ossigeno e, ne sono convinto, potremmo essere di fronte a veri e propri “aghi della bilancia” per il successo o l’insuccesso di una start up, realtà che raramente guarda oltre l’anno come orizzonte. Chiudo con un commento ricevuto ad un mio post su Facebook dall’amico Giovanni:
sarà perchè io appartengo ad un settore le cui dinamiche sono rodate, e nel quale la forza di volontà necessaria per far emergere un’idea dirompente è secondaria proprio perchè di idee dirompenti, qui, non ce ne sono…Maaaa…io di startupper ne ho conosciuti (e gestiti) una bolgia…non sarebbe il caso che qualcuno la piantasse con tutto questo guruism alla Tom Cruise in Magnolia, e spiegasse che la prima cosa che serve per fare una start up non è la capacità di concentrarsi sul proprio chi, o di recitare l’infinito nembutsu, o di focalizzare le energie negative verso l’esterno e quelle positive verso l’interno… la prima cosa che serve è avere un’idea un po’ meno che vaga e stereotipata di cosa significhi fare azienda, avere un quadro dei costi e dei possibili ritorni…cose non da primo anno di università, da primo anno di RAGIONERIA…ecco…perchè una start up, è pur sempre un’azienda. in partenza, ma un’azienda. che se c’è qualcosa che è la partenza di un niente, al niente arriva, e non da un’altra parte…
Forse parliamo della stessa figura..