Innovazione e startup. Nuovi mondi, nuovi mercati, ecosistemi, configurazioni, PMI, studenti e imprenditori che dopo una gita sull’orlo del baratro, sprintano con un colpo di reni e ce la fanno. Sono queste le storie che ogni giorno ci sforziamo di raccontare, forse per bilanciare “casa per casa” i preventivi e consuntivi macroeconomici che i mass media tristemente annunciano. Negli ultimi tre, di giorni, ho avuto la fortuna di vivere altrettanti eventi stimolanti: la presentazione del libro di Stefano Micelli “futuro artigiano” presso Banca IFIS, il technology forum di Ambrosetti a Castelbrando, e non ultima la riunione dei giovani soci di una piccola banca di credito cooperativo di Rovigo. La parola che accomuna queste esperienze è “storie belle”, persone che ce l’hanno fatta o ce la stanno facendo o sanno che potranno farcela, un film “già visto” che ci vede responsabili di un messaggio positivo verso i giovani, il futuro, il talento e il lavoro, insomma verso il nostro paese. Ma dove sono le storie brutte?
Fatico per deformazione a concentrarmi sui macro numeri, non riesco quindi a focalizzare “la disoccupazione”, “la stagnazione” etc.. anche perché ritengo che troppo spesso la politica industriale del nostro paese sia dedicata ad un “mettere toppe a cose che non funzionano da anni” piuttosto che incentivare cose che potrebbero funzionare. Il tutto in nome del rapporto tra azioni politiche e consenso che, in un contesto instabile, suona come una continua iniezione di droga verso consumatori, utenti, lettori ormai in crisi di astinenza di fiducia e grinta. Nel più piccolo dei sopra citati eventi, ieri una ragazza ha detto “le vostre sono belle storie, ma se io porto mia cugina nella vostra azienda a imparare a fare il gelato, ad esempio, cosa succede?”. Una bellissima domanda “politicamente scorretta”. Ci sono tre spunti che lascio, e sui quali credo si possa fondare un pezzo della nuova economia dei prossimi 40 anni:
è ormai chiaro che il contratto di lavoro dipendente ha sempre meno valore. E non è un problema di diritti e doveri, è un problema di condivisione del rischio. L’Italia vede eccellere (e quindi crescere) solo aziende che palesano un “ingrediente speciale” (un vantaggio di tecnica, manifatturiero, di conoscenza, di esperienza). Queste aziende sono sempre meno organizzate con rapporti del tipo “si fa cosi, fallo per 40 volte oggi” e sempre più “miglioriamolo insieme ogni giorno”. Si tratta di micro-imprenditori all’interno di imprese (li chiamano enterployee) e di una forma nuova di collaborazione.
Non si può ignorare il tema dell’energia imprenditoriale dissipata. Quando 9 startup su 10 non sopravvivono (ma la decima porta comunque in positivo la bilancia dell’investimento del venture capital), qualcosa non va. Quando si legge che “le aziende devono produrre startup seriali per poi scegliere su quali puntare” non si può pensare che tutto “il fallimento”, nel senso più puro e laico del termine, debba andare perduto. Quel fallimento va contenuto, compresso e incanalato in cluster ed ecosistemi anche fisicamente vicini e prossimi per fare in modo che “quell’ingegnere che per 3 anni ha puntato sulla startup sbagliata possa immediatamente riciclarsi nella startup vicina”. Il bello degli ecosistemi imprenditoriali è che falliscono i progetti (le idee, i mercati, i team, i prodotti) ma non le competenze dei singoli, che quindi hanno e devono avere una seconda o terza opportunità (magari alla quarta ci faremo delle domande).
La formazione deve divenire liquida. Tre o cinque anni di apprendimento generalizzato sono troppi e sprecati, ho due proposte: università di due anni, un anno in azienda e ritorno all’università. In alternativa esatta contaminazione tra docenti universitari, e docenti manager. Spesso si impara molto di più ai convegni (belli) che tra i banchi di scuola, ma a questi meeting gli under 40 sono latitanti, per troppi motivi che non dipendono solo da loro.
Probabilmente la ragazza che vuole fare il gelato potrà imparare a farlo, gratis, e costruirsi un lavoro. Serviranno competenze e il giusto piglio innovativo, ma mi viene da pensare che il futuro sia più figlio dell’abbandono di vecchi retaggi (anche doloroso, perché spesso vengono furbescamente accostati a diritti umani intoccabili) che della costruzione di nuove opportunità. Su quelle stiamo già lavorando, ma i disillusi dell’innovazione hanno solo un modo per cambiare marcia: ripensare totalmente le proprie convinzioni.
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