Negli ultimi tempi il futuro ci carambola addosso con una velocità impressionante. Abbiamo appena cominciato a parlare di Internet of Things e stampanti 3D e la distribuzione ha bruciato le tappe: sono praticamente già disponibili prodotti consumer per poche lire. Google fa la spesa nel futuro, un futuro fatto di auto che si guidano da sole, energia pulita e lotta all’invecchiamento.
Chi pensa che tutto questo ben di Dio sia gratis sbaglia di grosso. Un bel pezzo di Edoardo Segantini sul Corriere (La lettura) parla chiaro: la jobless recovery (cioè la ripresa senza lavoro) è un pericolo concreto. C’è un grado sempre più elevato di sostituibilità tra esseri umani e tecnologie, e l’evoluzione premia il lavoro di elite o le tecnologie stesse, ma le masse non specializzate, sempre più ampie man mano che la tecnologia ne raggiunge il livello, soffrono. Solo chi saprà scrivere le regole del gioco (linguaggi di programmazione?), riparare le macchine (stampanti 3D?) o far funzionare questi nuovi pannelli di automazione del marketing, ad esempio, avrà un posto assicurato nell’olimpo del lavoro. Tutti i lavori sono potenzialmente a rischio, e la cosa non conforta.
Il secondo punto di attenzione è legato all’ascesa dell’individualità. Un’individualità che è ben viva nel ruolo del “founder” della startup, ad esempio, il quale è comunque coadiuvato da un team spesso raccolto e fedele. Non è più il tempo delle grandi fabbriche (siano esse intese come fabbriche o grandi agenzie digitali), è il momento di piccole realtà che creano domanda continuando a costruire oggetti e servizi che prima non desideravamo, non solo perché non esistevano, ma anche perché non avremmo creduto potessero esistere, si pensi ad esempio alla wearable technology.
Se è vero che “il lavoro di domani non potrà che essere quello di creare conoscenza che sarà usata da macchine, e di insegnare alle macchine come usarla” comprendiamo come i recenti casi di questi giorni siano in realtà solo la punta di un iceberg pronto a mostrarsi in tutta la sua maestosità. I nuovi lavoratori della conoscenza e della comunicazione devono scappare a gambe levate dal far sapere, non per forza per fuggire verso i lidi più sicuri ma forzatamente quasi artistici e (fortunatamente?) non scalabili del neo-saper fare artigiano, sicuramente però urge divenire “i migliori o quasi” nello sviluppo di una competenza, magari da trasferire a una macchina, ma in cui conoscenza e cultura risultino fondanti e pregnanti, proprio perché difficilmente replicabili e industrializzabili.
Le sfide della prossima rivoluzione industriale sono tutte da vivere ma non sembra esserci scelta, se non quella di cominciare a prepararsi.