L’RSI (Responsabilità sociale d’impresa, o Corporate Social Responsibility, CSR) è solamente uno strumento di marketing?
Questa la domanda che mi sono posto dopo la lettura de: “L’impresa Irresponsabile” di Luciano Gallino.
Premetto di aver visto recentemente sia il docu-film “the Corporation” (e letto il libro da cui è tratto), che uno spettacolo di Beppe Grillo, quindi la mia percezione può essere più critica rispetto al solito, ma la risposta dal mio punto di vista, è affermativa.
Ora, in quanto studente iscritto alla specialistica in “Marketing e Comunicazione” non considero affatto il marketing un male. Ma il Marketing stesso dovrebbe iniziare a fare una campagna di RSI a suo pro, in quanto l’accezione “di marketing” è spesa quasi sempre come negativa.
Il premio Nobel 1976, Milton Friedman al New York Times Magazines, il 13 settembre 1970 esplicitò la sua convinzione a riguardo: “La responsabilità sociale di un’impresa è incrementare i propri profitti” a spiegazione dell’altrettanto celebre affermazione dello stesso economista: “Poche tendenze possono scardinare in maniera così totale i fondamenti stessi della nostra società libera, come l’accettazione, da parte dei dirigenti delle imprese, di una responsabilità sociale diversa dalla pura e semplice responsabilità di guadagnare la maggior quantità possibile di denaro per i loro azionisti. Si tratta, infatti, di una dottrina fondamentalmente sovversiva”.
Nel corso degli ultimi anni moltissime campagne pubblicitarie e promozionali stanno facendo leva sull’ambiente, sul sostegno a particolari gruppi di minoranze affette da malattie, sulla ricerca a fini quasi “filantropici” nascondendo dietro ad azioni “sociali o etiche” precise strategie commerciali (e mica è un male, sia chiaro!).
Ora estremizzo questa logica, non considerandola la norma, ma un’eccezione già ampiamente suffragata da fatti (quindi non inverosimile né remota).
Il ragionamento tale per cui finanzio un’azione o un progetto fintanto che mi giova, per poi abbandonarlo nel momento stesso in cui non mi porta giovamento, mi sembra davvero insostenibile, anche se economicamente valido.
Due esempi concreti:
· io gruppo farmaceutico distribuisco a un popolo X dell’Africa medicinali ad hoc per debellare una malattia della popolazione finché l’opinione pubblica e i miei stakeholders ne tengono conto, per poi abbandonarla quando non ho più un vantaggio economico: dal punto di vista della legge, io gruppo farmaceutico sono nel giusto e posso farlo.
· Io multinazionale finanzio una campagna per l’emancipazione delle donne arabe (o per la salvaguardia dell’ambiente) e nel contempo vado a sfruttare i bambini in Cina per convenienza economica (e finchè non verrò scoperto, senza danni alla mia immagine)
Ma è giusto spingersi fino a tale punto? Secondo Friedman sì: l’impresa deve guardare solo e solamente ai propri profitti.
Per questo da “markettaro” convinto e amante della disciplina auspico un ricorso a campagne di RSI non solo legate al profitto, ma interiorizzate dalla stessa impresa come asset distintivo, in primis culturale, in modo tale da legare un vantaggio economico privato a un’azione senza spiacevoli e riprovevoli conseguenze sociali.
Gianluca Marconato per Marketingarena.it
Per l’immagine robmillard.com