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Perché la cultura salverà le nostre imprese

In un mondo in cui se hai meno di 35 anni e non sei dipendente sei uno startupper, e se hai scritto almeno una volta la parola Arduino da qualche parte, sei un maker, il tema delle imprese e dell’economia di domani è sempre più centrale. Ieri ho partecipato alla conferenza stampa di presentazione del Festival Città Impresa, un momento molto interessante che ha visto confrontarsi figure che da anni analizzano e raccontano il territorio del nord est e le imprese che lo stesso ospita. Il concetto più forte che è uscito dalla giornata è legato alla necessità di un nuovo patto culturale tra le aziende ed i clienti, e tra le aziende stesse.

Non avevo mai pensato all’idea che il valore generato da un’azienda potesse essere altro oltre ad un fatturato e alle esternalità positive (di solito non monetarie) che l’impresa stessa è in grado di garantire. Ieri tutti hanno invece puntato sull’idea di sviluppare un’offerta ed un prodotto “sexy”. Forse questo video spiega cosa intendo:

Tali attività che contraddistinguono le ormai diverse imprese che hanno ripensato il proprio esistere con un’offerta interamente nuova, personalizzata e originale, hanno una radice comune nella cultura che l’azienda sposa e nella conoscenza che la stessa lavora e re-immette sul mercato sotto forma di “ossigeno” al servizio della collettività. Quando un’azienda manifatturiera crea un prodotto o un’azienda di servizi eroga una consulenza o sviluppa un progetto, è importante comprenderne gli effetti culturali. Personalmente ho sempre creduto poco nella filantropia, ma al tempo stesso mi sono domandato cosa giustifichi il “premium price” che le persone oggi pagano per una bicicletta artigianale o per una grappa riserva privata barricata. E credo sinceramente che anche il tempo dello storytelling sia passato, un po’ come quando bastava avere Facebook per essere sui Social. Basandosi su gartner ma non dimenticando latouche, la disillusione è arrivata, e sta passando. Il bravo markettaro non è più chiamato a inventare storie da raccontare (quello è il markettone), ma è oggi obbligato a tirar fuori, estrapolare, quelle storie che gli imprenditori non raccontano più (per paura, fretta, disillusione a loro volta, ma sul prodotto), e solo dopo potrà raccontarle. Sono storie di prodotto, di mercati del pesce, e fabbriche lente. Diciamoci la verità, ha fatto a tutti un po’ comodo lavorare su focus group e brainstorming creativi, social media strategy e blog aziendali, ma poi.. l’imbarazzo del ROI. Dove Stefano Micelli ha proposto una nuova saldatura tra cultura del sapere e cultura del fare, il marketing è chiamato a tornare sul prodotto, proponendo una nuova saldatura con la comunicazione. Il prodotto deve tornare a pesare l’80% del valore di un’azienda (quando tutte le startup che oggi vanno a chiedere un founding puntano al 50% sul marketing) e che un ecosistema sostenibile in Italia è fatto di formazione e lavoro. In un contesto come il nostro i cluster, i kibs, gli incubatori stanno sostituendo la politica, intrecciando relazioni, facilitando business e accelerando la crescita. Se le aziende capiranno che le voci di bilancio dovranno comprendere la qualità più che la quantità, i momenti più che i volumi, forse riusciremo a costruire un ecosistema agile e funzionante.

L’idea di un’Italia “bomboniera del mondo” con il turismo come leva di comunicazione di un prodotto eccellente, forse non è poi cosi male.

 
 
AUTORE

Giorgio Soffiato

Markettaro per passione, dal 1983. Mente creativa e progettuale dell'azienda, fa chilometri e supera ostacoli in nome della rivoluzione arancione chiamata Marketing Arena. Cavallo Pazzo.
 
 

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