Un ottimo articolo di Giovanna Cosenza su linkesta ha sollevato in questi giorni su Facebook un forte dibattito. Il corso di laurea in scienze della comunicazione è malato? La comunicazione è malata? I comunicatori trovano lavoro?
Non mi voglio soffermare sugli attacchi della politica a questo tipo di specializzazione, la cui nascita non troppi anni fa appariva lungimirante e futuribile, ed ancora oggi nella teoria una laurea in comunicazione dovrebbe dare accesso a moltissime opportunità, purtroppo non è cosi. L’articolo della Prof.ssa Cosenza gioca giustamente in difesa: i laureati in comunicazione non lavorano meno degli altri e i voti non sono regalati, note negative sono una maggiore precarietà e stipendi più bassi, nell’ordine però di 100 euro circa rispetto agli altri, una somma anche accettabile per chi dovrebbe fare un lavoro divertente e stimolante. Il condizionale è obbligato, e ha ragione l’autrice quando riconduce la causa di questo attacco frontale a problemi più alti rispetto alla struttura di un corso di laurea, in particolare:
- Cultura: in Italia manca la cultura della comunicazione come leva di marketing (e non solo) a servizio delle imprese. Uno dei problemi che più spesso è stato sollevato nei commenti all’articolo è che chi si occupa di comunicazione nelle imprese in realtà spesso ha una formazione di altro tipo (tecnica, amministrativa, commerciale) e prende decisioni sulla base dell’esperienza fatta in azienda più che di solide basi sul tema.
- Stabilità: esiste un forte problema di sostituibilità delle persone, lauree “più forti” (ingegneria ad esempio) riescono dopo un primo periodo a ottenere contratti più stabili mentre gli esperti in comunicazione faticano molto in questo senso (ricordate anche il fenomeno nofreejobs?)
I commenti su Facebook toccano varie note dolenti e meno, le più gettonate:
- sovrabbondanza di comunicatori
- scarsa ricettività da parte delle imprese, spesso troppo piccole ed inserite in un tessuto frammentato
- necessità di formazione successiva o complementare per essere competitivi
Proprio sul tema precedente della sostituibilità, e della risposta alla stessa, ho visto un barlume di speranza. I nostri studenti, ex studenti, comunicatori dicono sostanzialmente che non è il corso di laurea in se ad avere dei problemi, sono le aspettative che lo stesso genera a dare vita ad un colossale misunderstanding. Una laurea in comunicazione non basta: non basta ai comunicatori, non basta a chi deve assumerli. E soprattutto i vari profili che questa laurea sforna sono cannibalizzati da altre figure più snelle che dimenticano le solide basi necessarie per gestire progetti vincenti nel lungo periodo e mettono la freccia giocando su competenze spot che vanno di moda. Penso ad esempio ad una persona molto attiva sui social media che, pur senza basi di comunicazione, si propone come specialist (basta poi non lamentarsi nei casi di epic fail).
Noto la fuori una grande attenzione verso mestieri che i comunicatori devono saper fare molto bene, il lavoro quindi teoricamente non manca. Forse è proprio da un confronto tra “le parti” che deve emergere un nuovo modo di fare comunicazione, da un lato con programmi più attenti all’operatività del racconto e non solo votati alla costruzione di una storia, dall’altro con una maggiore voglia di apprendere e di costruire parallelamente al percorso universitario un curriculum forte, integrando all’apprendimento frontale altri tipi di esperienze.
Senza dubbio una bella sfida, chiudo con un video che mi segnala Stefano Micelli, autore di Futuro Artigiano che commenta “se i nostri studenti fanno video come questi, di certo non gli mancherà il lavoro”
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