Per capire l’Italia bisogna prendere la macchina, accenderla, e fare strada. Anche ieri, come quasi ogni giorno ho avuto l’onore e l’onere di girare in lungo e il largo il nord est, alla scoperta di aziende con una marcia in più. Prima di qualsiasi riflessione è meglio mettere le mani avanti su tre punti: parliamo spesso di nord est, le aziende che investono in web marketing o ne subodorano le opportunità sono comunque avanguardiste e, infine, sono spesso eccellenze verticali. Per quanto la visione possa quindi risultare parziale, provo qualche riflessione.
Ieri, come in tante altre occasioni, ho visto un’azienda sana, che cresce e investe nel proprio lavoro. Ampliamenti di showroom, acquisto di macchinari, ricerca e sviluppo. In un momento come questo il primo segnale di lungimiranza sta nella volontà di ampliare il gap verso altri competitor con una strategia proattiva anziché reattiva che porta non solo a una proposta di valore sempre aggiornata, ma soprattutto a una superiorità manifatturiera e tecnologica di valore, per capirci se il tuo prodotto alimentare a parità di qualità dura di più, hai vinto perché puoi accedere a mercati prima a te preclusi. Il secondo tema interessante vive nella contaminazione e nell’innovazione di prodotto: design e creatività non bastano più, la loro spinta è in qualche modo clonabile. C’è invece un valore difficile da clonare, forse l’unico in cui l’Italia ha davvero una marcia in più e l’avrà per almeno 50 anni: non so se è il termine giusto ma lo definisco heritage. Portare nei tuoi pavimenti in legno un mosaico con 50 anni di storia ti permette di far collidere in un’esplosione di valore positivo e autentico due prodotti, ma anche due brand, a generare una realtà nuova a doppia potenza di mercato, di comunicazione e di innovazione. Il terzo tema è più banale, ma fondamentale, e si sostanzia nella strategia di crescita. Se capiremo che il mercato sta cambiando pesantemente (ne ho parlato in questo pezzo sul tema dell’indie capitalism) e che “impresa italiana” non significa “impresa che vende agli italiani” forse avremo fatto del bene al nostro progetto economico. Non so se sia giusto ma l’idea di un’Italia bomboniera del mondo per quanto riguarda il turismo e piattaforma di produzione su piccola o media scala a livello manifatturiero non mi dispiace. Per la miriade di nostre imprese che aspirano a fatturare 50 o 100 milioni di euro le opportunità sono infinite, ed anche per chi ha voglia di sviluppare servizi che devono però rispettare tre condizioni: internazionalità, distribuzione, agilità. Le 8 aziende su 10 che non ce la fanno, purtroppo non capiscono. Le associazioni cui si affidano vanno più lente della spirale negativa, le 2 aziende su 10 che vincono sono fuori dal ciclone, perché vanno a doppia velocità. I 3 fattori che Marco Bettiol su firstdraft individua come critici per parte dell’impresa italiana (lavoro, consumatore, concorrenza) sono in realtà mutabili rispetto ad un quarto componente, il mercato che sembra invece vivo, vegeto e crescente attorno a questi temi.
L’impresa italiana ha l’obbligo di non piangersi addosso, di maturare una cultura di management, utilizzo degli strumenti finanziari e soprattutto sviluppo di una cultura digitale forte. I nostri uomini d’azienda sono in realtà uomini di prodotto, eccellenti come mai nessuno ieri, oggi e domani. Non sono però uomini di visione, gestione, innovazione, comunicazione, leve oggi non più prescindibili in un mercato che non è morto, ma si è spostato. Saltare il canale, gestire le consegne, reinventare i pagamenti, adattare la finanza, sono queste le sfide che i nostri capitani di ventura non possono non affrontare, ma non sanno affrontare. Le aziende italiane stanno male, ma i prodotti italiani stanno benissimo. La situazione è drammatica, ma se nella condizione contraria sarebbe irreveresibile, nell’attuale la speranza che un buon progetto Paese possa cambiare le cose è viva.
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