Buongiorno Marco, il suo blog http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/ è un bell’ intrecciarsi di temi letterari e economici, essendo professore di Humanistic Management all’Università di Pavia, ci può spiegare qual è il nesso tra le due discipline apparentemente così lontane?
Come nel fiume di Eraclito, le persone e le organizzazioni oggi sono immerse in processi che trasformano la loro vita attimo dopo attimo. Per questo motivo, le tradizionali scuole di management hanno proposto numerose teorie volte a produrre culture aziendali improntate alla mutazione istantanea, alla formazione continua, alla “distruzione creatrice”. Si deve tuttavia ammettere che hanno, almeno in parte, fallito.
La ragione è semplice e va ricercata nel difetto d’origine del cosiddetto scientific management: la persistente ricerca di una formula in grado di dominare integralmente la complessità della vita e quindi delle imprese, mentre la realtà non consente più di essere regolata da un paradigma ordinatore dalla validità assoluta.
Eppure in Italia, almeno fino al 2004, quando ho pubblicato il volume Le nuove frontiere delle cultura d’impresa. Manifesto dello humanistic management, la possibilità di descrivere un modello di gestione (e quindi di formazione manageriale) alternativo al tradizionale scientific management non era stata presa in seria considerazione da nessuno. In quel volume veniva descritta per la prima volta in maniera completa una visione di che cosa sia e di come gestire il “mondo vitale” delle imprese, fondata sull’idea che sia possibile coniugare i più avanzati strumenti prodotti dall’Information & Communication Technology a discipline come la letteratura, la filosofia, l’antropologia, la drammaturgia, la cinematografia, la poesia. Il Manifesto dello humanistic management ha risposto insomma alla necessità di dare una cornice di riferimento a pratiche alternative allo scientific management che non si riducesse ad una mera rievocazione del mito umanistico.
E’ incredibile osservare come, pochi anni dopo la pubblicazione del Manifesto, lo scenario sia completamente cambiato. Ormai ogni giorno porta la notizia di qualche iniziativa nel mondo aziendale ispirata alle metafore letterarie, cinematografiche, teatrali, filosofiche, mentre autorevoli esperti in numero sempre maggiore condividono l’opportunità quanto meno di integrare le competenze manageriali “hard” con delle “soft” skill di tipo culturale. Il rischio quindi oggi è quello della banalizzazione della proposta, di ridurla ad una ennesima moda o formula manageriale, tipo “i 50 libri o i 50 film dello humanistic management” o operazioni del genere, innovative quindici anni fa (penso ai lavori di un Varchetta o di un Varanini) ma che oggi sono solo trite operazioni commerciali. Una iniziativa come il nostro Metablog collettivo vuole proprio andare nella direzione di una ricerca che eviti le trappole dei vecchi formati e dei vecchi linguaggi, sperimentando nuove forme di comunicazione ed espressione, a partire dalle meravigliose opportunità offerte dalle nuove tecnologie.
Che cos’è “L’Impresa Shakespeariana”?
Questo volume, realizzato in occasione del Congresso europeo dell’EAPM (European Association of Personnel Management) del 2003, è una rielaborazione degli Editoriali da me pubblicati nel corso di 7 anni su Hamlet, la rivista che ho fondato e diretto fra il 1997 e il 2003, insieme alle meravigliose copertine originali realizzate da Milo Manara per illustrarli. Per comprendere il senso dell’esperienza Hamlet basta riflettere sul fatto che, se la filosofia occidentale, secondo la celebre definizione datane da Whitehead, non è che una glossa agli scritti di Platone, non sono che note a margine dei capolavori shakespeariani il teatro e la letteratura moderni, nonché la nostra stessa vita. Tale almeno sembra essere il parere di Harold Bloom, che afferma: “Se potessimo concepire un canone universale, multiculturale e polivalente, il suo unico libro essenziale non sarebbe una scrittura, sia essa Bibbia, Corano o testo orientale, ma piuttosto Shakespeare, che è messo in scena e letto ovunque, in ogni lingua e circostanza… Anche per centinaia di milioni che non sono bianchi europei, Shakespeare è un indizio del loro proprio pathos, del loro sentimento di identificazione con i personaggi cui Shakespeare conferì carne e sangue con il proprio linguaggio. Per essi la sua universalità non è storica ma fondamentale; Shakespeare mette sul proprio palcoscenico le loro vite. Nei suoi personaggi, essi contemplano le proprie angoscie e le proprie fantasie e con esse si confrontano”. Fra tutte le discutibili opinioni espresse da Bloom, questa mi sembra una delle più incontrovertibili. Applicata al mondo delle aziende (anche se Bloom non sarebbe d’accordo) ci consente di trovare una chiave di interpretazione a tutti i fenomeni che in essa si determinano: nel confronto con quella che potremmo chiamare “l’impresa shakespeariana” possiamo meglio comprendere la realtà delle singole organizzazioni in cui operiamo.
Alla luce di tali considerazioni, si può meglio comprendere come mai nel marzo del 1997 usciva il primo numero di Hamlet, rivista bimestrale dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (AIDP), con “la finalità essenziale”, scrivevo nel primo Editoriale, “di alimentare il dibattito su politiche, metodi e strumenti mirati alla valorizzazione delle persone in azienda”. La sfida che si intendeva accettare era quella di dare una più ampia diffusione alla riflessione su problemi che riguardano direttamente tutti coloro che operano dentro le aziende (tecnici, manager, dipendenti in generale) o a fianco di esse (consulenti, fornitori, sindacalisti, docenti universitari, studenti e neolaureati, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti, politici), formulandoli e discutendoli da un punto di vista innovativo. La questione che si poneva era dunque di trovare un linguaggio e una prospettiva teorica adatti a catturare l’attenzione non solo degli “addetti ai lavori”, ma di un pubblico il più possibile vasto e diversificato; la soluzione trovata consistette nel tentativo di illuminare le molteplici facce della vita d’impresa, puntando in ogni numero su una di esse i riflettori di qualificati contributi provenienti dalle più diverse discipline umanistiche e scientifiche, che tuttavia trovassero nel riferimento al corpus shakespeariano l’ideale comune denominatore.
Allora cercare in Shakespeare una chiave di lettura per temi discussi quasi esclusivamente nell’ambito del cosiddetto “scientific management” poteva sembrare una eresia: il tentativo poi di analizzare la realtà imprenditoriale con strumenti e apporti provenienti da filoni culturali eterogenei e anche all’apparenza lontanissimi dalle questioni quotidianamente affrontate nelle imprese (dalla letteratura al cinema, dall’arte figurativa alla metafisica, dalla filosofia politica alla fantascienza), poteva apparire come una vera e propria follia. Con uno sguardo retrospettivo (l’ultimo numero della rivista è uscito nel luglio del 2003), si può affermare che il metodo nascosto dietro quella follia ha però dato frutti interessanti e concreti.
In primo luogo si è anticipata una delle più recenti tendenze affermatesi nel panorama editoriale internazionale: la sistematica rilettura di Shakespeare in chiave manageriale (o la lettura shakespeariana dell’impresa). La strada che collega il Grande Bardo al management è stata ufficialmente aperta da Kenneth Adelman, autore, insieme all’ex CEO Loockheed Norman R. Augustine, del libro Shakespeare in Charge : The Bard’s Guide to Leading and Succeeding on the Business Stage (edito nel 1999, ovvero due anni dopo la prima uscita di Hamlet). Successivamente una vera e propria Shakespeare-mania ha cominciato a pervadere il mondo manageriale anglosassone: sono usciti volumi come Power Plays : Shakespeare’s Lessons in Leadership and Management di John O. Whitney (giugno 2000), anticipato di qualche mese dal testo di Paul Corrigan, Shakespeare on Management. Leadership lessons for today’s managers, di cui ETAS ha pubblicato la versione italiana.
Rispetto a questi testi, tuttavia, ben diverso appare il caso di Hamlet , che pur avendo effettivamente anticipato i tempi, sviluppando nell’arco di quasi sette anni, un cammino di riflessione manageriale integralmente “shakesperiano”, fin dall’inizio intendeva andare oltre l’approccio proposto dai tre esperti citati. Essi infatti dal genio della drammaturgia inglese traggono essenzialmente degli insegnamenti ancora attuali sulla questione della leadership. E’ estremamente significativo che nessuno dei tre studiosi sopra ricordati, che pure analizzano, spesso in maniera brillante, opere come Riccardo III, Giulio Cesare, Macbeth, Re Lear e, soprattutto, Enrico V (l’unico leader di successo di tutto il corpus shakespeariano), trascurino quasi del tutto l’Amleto, da cui invece ritengo si possano trarre lezioni altrettanto significative, ma che è meno agevole da trattare in termini di “leadership lessons”, immediatamente comprensibili e traducibili in pratica dai top manager.
Pur concordando sull’utilità di questo tipo di approfondimento, io credo che si possa guardare a Shakespeare in una ben più articolata prospettiva. L’Autore che si pone al centro del Canone letterario occidentale costituisce una inesauribile fonte di ispirazione per conoscere meglio noi stessi, le organizzazioni in cui lavoriamo, le società in cui viviamo. Come sostiene Harold Bloom quando scrive: “Qui ci troviamo di fronte alle insuperabili difficoltà della più idiosincratica forza di Shakespeare: chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te. Ti rende anacronistico perchè ti contiene; non puoi sussumerlo”.
Ma Bloom limita le sue affermazioni al campo letterario: più precisamente, poiché, ha affermato Oscar Wilde, “l’arte è del tutto inutile”, a suo avviso è un errore credere che lo studio della letteratura possa diventare una base per l’educazione democratica o il miglioramento sociale. Io ritengo invece si possa andare oltre e che ogni nostra esperienza quotidiana, sia all’interno che al di fuori dei luoghi di lavoro, possa essere letta con immenso profitto attraverso gli strumenti concettuali messi a disposizione dalla universale sapienza shakespeariana e dalla grande letteratura di tutti i tempi. “Il vero uso di Shakespeare, di Cervantes, di Omero e di Dante, di Chaucer o di Rabelais, consiste nell’aumentare la propria crescente interiorità”: giustissimo, ma la nostra crescita interiore dipende dalla capacità di dialogare non solo con la nostra mente, come vorrebbe il solispsistico Bloom, ma anche con quella degli altri.
Seguendo questa via, è possibile attualizzare il concetto di cittadinanza organizzativa come testo, aperto ad una pluralità di letture, di cui i singoli individui operanti in azienda sono gli autori , in quanto riflettono e agiscono sul significato del costruire una vita comune a partire dal loro essere persone concrete, che appartengono a specifici gruppi sociali, che hanno agende politiche diverse, interessi specifici e sistemi di significati contrastanti per gli stessi concetti. L’idea al fondo dell’esperienza di Hamlet è che “l’impresa di persone” possa scaturire solo dal confronto fra tutti coloro che direttamente e indirettamente, a partire da ruoli istituzionali, politici, sociali e organizzativi differenti, o addirittura opposti, influiscono sulla determinazione dei modelli organizzativi, dei metodi e processi di lavoro, degli strumenti di gestione e controllo.
Nello stesso tempo, l’impresa non è “un mondo a parte”: essa nasce e si sviluppa in un contesto socioculturale assai più ampio, da cui trae senso e per il quale diviene a sua volta fonte di nuovi significati. Per questo motivo con Hamlet si è voluto mostrare come non solo la letteratura, ma anche le altre varie espressioni dello spirito umano – la pittura o la filosofia o la cinematografia – possono servire sia quali terreni imparziali su cui fare dialogare le differenti opinioni relative all’essere e al divenire delle imprese, sia come “lenti d’ingrandimento” che consentano di guardare all’azienda (nel suo insieme, nei suoi aspetti particolari e nei suoi rapporti con l’esterno) cogliendone, nel limite del possibile, le sfaccettate valenze, i numerosissimi e forse infiniti livelli di lettura. La speranza è che dall’incontro di esperienze e punti di vista anche molto lontani fra loro si possa pervenire ad un arricchimento complessivo di tutti coloro che partecipano a questa conversazione.
Sta coordinando un progetto molto interessante e se vogliamo di frontiera almeno qui in Italia, il suo nome è “Aziende In-Visibili”, è implicita l’associazione con il famoso libro di Italo Calvino “ Le città Invisibili” , che cos’è questo progetto e cos’ha in comune con il libro?
Le Aziende In-Visibili.Il romanzo, che sarà pubblicato nei prossimi mesi da Libri Scheiwiller, costituisce l’applicazione letteraria di una piattaforma per la generazione di percorsi narrativi. Alla declinazione romanzesca di questa piattaforma hanno lavorato un centinaio di personalità dell’economia, dell’arte e della cultura virtualmente costituenti la LMS, Living Mutants Society: Innocenzo Cipolletta, Paolo Savona, Walter Veltroni, Enrico Bertolino, Alessandro Zaccuri, Pier Aldo Rovatti, Enzo Rullani sono i primi nomi che mi vengono in mente, insieme a decine di altri scrittori, filosofi, registi, astronauti, cantanti, attori, sociologi, analisti finanziari… (l’elenco completo lo trovate sul blog). La sfida che hanno accettato: racchiudere la propria conoscenza umana e professionale in un breve apologo, che rivisita una delle Città Invisibili di Italo Calvino, divenendo al tempo stesso uno dei 128 episodi del romanzo Le Aziende In-Visibili. Si è così aperta la strada ad una ricerca individuale e collettiva che varca, grazie alla forza dell’analogia, i confini del tradizionale modo di guardare al mondo imprenditoriale, ma che soprattutto utilizza la metafora dell’azienda per parlare della nostra contemporaneità. Come ho scritto anche sul blog, l’operazione non è dunque una mera, ennesima, sperimentazione di narrazione collettiva fondata sul potenziamento di uno schema che dai primi goal di Luther Blissett ad oggi è stato giocato, con molteplici varianti, fino alla noia e che potrebbe essere sintetizzato nello slogan, dotato di una sua efficacia benché oggettivamente di dubbio gusto, “dai 5 Wu Ming ai 100… Wu Minghetti”. Si inquadra invece nella riflessione metadisciplinare di cui abbiamo parlato sopra, sviluppatasi inizialmente intorno alla rivista Hamlet (1997 – 2003); descritta in termini teorici generali nel Manifesto dello Humanistic Management (Etas, 2004); approfondita nei volumi L’Impresa shakespeariana (Etas, 2002, illustrato da Milo Manara) e Nulla due volte (Scheiwiller, 2006), che ho scritto in collaborazione con il Premio Nobel per la Letteratura Wislawa Szymborska (ed arricchito con fotografie di Fabiana Cutrano).
Le Aziende In-Visibili. Il romanzo, esito finale di questo percorso, va quindi ulteriormente contestualizzato nel dibattito attuale, letterario ma non solo. Io credo che al fondo vi sia il testo di Francois Lyotard La condizione postmoderna (Feltrinelli, 1979). Qui si tematizza la fine dei “grandi racconti” che hanno orientato trasversalmente i saperi moderni. Oggi, dice Lyotard, siamo in una condizione frantumata e disseminativa dei saperi, che, come ha ben riassunto Franco Cambi, “hanno perduto Unità e Senso. Essa produce, però, ‘sensibilità per le differenze’ e ‘capacità di tollerare l’incommensurabile’, rivolgendosi alle ‘instabilità’. La legittimazione dei saperi si ottiene per ‘dissenso’, per ‘mosse’ anche audaci, in un modo che si lega all’’anti-modello di un sistema stabile’ … Se non possediamo più metanarrazioni che ci orientino tra i saperi, di quei saperi dobbiamo – invece – recepire il dismorfismo, la dialettica, l’iter disseminativo.“
A questi fondamentali riferimenti se ne dovrebbero aggiungere molti altri, fra cui il concetto di complessità elaborato da Edgar Morin e da una folta schiera di epigoni, la visione della modernità liquida di Bauman e della modernità riflessiva di Beck, la teoria dei non luoghi di Augè e quella del genius loci di Trupia, il sensemaking descritto da Weick, l’effetto Medici scoperto da Johannson, l’ascesa della nuova classe creativa celebrata da Floridia. E ancora le riflessioni di Levy sul virtuale, di Virilio sull’arte dell’accecamento, di Kevin Kelly sulla necessità attuale di guidare le organizzazioni senza averne controllo, di Castells e Rullani sull’economia delle reti, di De Masi su fantasia e concretezza…
Insomma, un lungo elenco. Ciò che qui mi preme sottolineare, però, è che questo insieme di apporti, pur essendo entrato nei confronti di idee svoltosi su moltissimi tavoli diversi, specialistici e trasversali, negli ultimi trent’anni, di fatto non si è tradotto in pratiche narrative veramente nuove, almeno per quanto riguarda i due versanti che più mi interessano, quello artistico (letterario, in particolare) e quello manageriale. Certo sempre più spesso studiamo saggi di sociologia o di management che traggono ampia ispirazione dai lavori di filosofi e romanzieri, e, viceversa, leggiamo romanzi o assistiamo a film o spettacoli teatrali in cui si prendono a prestito linguaggi, temi e tecniche di scrittura dalle discipline più disparate. Ma si tratta nel migliore dei casi di contaminazioni, miscellanee più o meno riuscite, spesso mere giustapposizioni (il giudizio critico vale innanzitutto per i lavori sopra citati che io stesso ho realizzato), generalmente intruppate nell’onnivoro concetto di postmodernità, che come ogni post è in realtà una trappola linguistica. Strictu sensu, postmoderno significa “ciò che viene dopo il moderno”: e cosa viene dopo il moderno? Tutto e il contrario di tutto. E’ come se, andando a cena da amici, vi pungesse la curiosità di chiedere: “Ottimo questo risotto, quale è la prossima portata?”, e la risposta non fosse “carne”, o “pesce”, o “salumi”, ma: “il postrisotto”.
Sotto questo aspetto, l’auspicio espresso nel suo ruolo di critico della letteratura da Belardinelli, ovvero che si possa transitare dall’ormai usurato concetto di postmodernità ad una pratica narrativa radicalmente mutante, che sia al tempo stesso in grado di dialogare con il patrimonio letterario del passato, prossimo e remoto, guardando tuttavia al futuro, può credo più generalmente tradursi nella tensione verso un modo di leggere, interpretare ed infine gestire la realtà che sappia superare vecchie tassonomie e modelli mentali. L’approccio collettivo e metadisciplinare che ha presieduto alla stesura de Le Aziende In-Visibili, in maniera ancor più programmaticamente marcata che in tutte le precedenti esperienze dello Humanistic Management, il cui bagaglio concettuale ormai può tranquillamente proporsi quale vero e proprio Humanistic Mindset per la (tentativa) comprensione, a trecentosessanta gradi, del mondo in cui viviamo, ha l’ambizione di affermarsi come una possibile modalità pratica di scrittura mutante, che travalica le distinzioni fra scrittori e manager, fra sociologi e attori, fra musicisti e designer, fra filosofi ed economisti, cercando di trovare un terreno comune di intesa (la piattaforma per la generazione di percorsi narrativi cui accennavo all’inizio) che sarà poi possibile declinare attraverso specifici linguaggi e svariate tecnologie di comunicazione ed espressione, come appunto Le Aziende In-Visibili: il Metablog – http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com – in cui i temi del romanzo vengono discussi e approfonditi con le modalità tipiche della Rete.
Le Aziende In-Visibili a chi è indirizzato soprattutto?
Lo humanistic management/mindset è uno strumento di interpretazione della contemporaneità: è quindi offerto a tutti coloro che siano interessati a conoscerlo e ad utilizzarlo. Per dare conto della complessità della nostra epoca, nel romanzo troviamo intrecciati moltissimi piani di lettura possibili: dal cinema al management, dalla sapienza degli I Ching alla psicanalisi. Tutti questi elementi aprono la possibilità di tracciare innumerevoli percorsi di lettura all’interno del libro, come avviene in un ipertesto su Internet (e nel profetico Ruyela di Cortazar). Si può procedere nella lettura non solo seguendo la numerazione progressiva degli episodi, ma ad esempio l’ordine numerico degli Esagrammi (abbinati a ciascuno degli episodi del romanzo) o la rotta seguita da Deckard sulla mappa dell’Astrogramma (su cui ogni Azienda In-Visibile è posizionata, come le Aziende reali lo sono negli Organigrammi). Anche per questo motivo la grafica del volume richiama quella di una Intranet Aziendale, in particolare di uno di quei Tableau de Bord a supporto dei processi decisionali, ricchi di dati, grafici e tabelle, aggiornati in tempo più o meno reale, che i manager delle grandi aziende ben conoscono. La parte destra di ogni pagina accoglie il testo del romanzo, mentre in quella sinistra una “In-Visible Scorecard” segnala alcuni indicatori per la sua gestione (lettura ed interpretazione): il numero progressivo dell’episodio, la posizione in Astrogramma dell’Azienda In-Visibile ivi descritta, l’Esagramma correlato nella versione Boaz o Jakin (i due tronchi dell’Albero della Vita rappresentativi dei due principi vitali, maschio-femmina luce-buio, ecc), il link con l’originale calviniano, eccetera. Se qualcuno vuole vedere in questo una ironica rappresentazione dell’illusione (non solo) manageriale del controllo totale sulla realtà, è libero di farlo – anzi decisamente incoraggiato
Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri de Le Aziende In-Visibili?
Al percorso narrativo scritto si affianca un percorso musicale, per cui ogni episodio ha una sua “colonna sonora” che ne definisce il mood. Anche grazie all’inserimento di questo elemento, ognuno dei 128 episodi del romanzo si configura come base-dati da cui ricavare una piccola sceneggiatura: da qui l’idea, su cui sto cominciando a lavorare, di realizzare Le Aziende In-visibili: la Web-Opera (ibrido fra la Rock Opera musicale e la Soap Opera televisiva, nello spirito dell’Opera Totale di wagneriana memoria da veicolare attraverso qualche canale tv in Rete) così concepita: 128 video, uno per ogni episodio, durata massima 3 minuti l’uno. Potrebbe essere questa la prossima declinazione della nostra piattaforma per la generazione di percorsi narrativi, se troviamo un produttore abbastanza pazzo (o visionario). Ne conosce per caso qualcuno?