Un teatro europeo, per ipotesi diciamo italiano, copre l’80% del suo bilancio con finanziamenti diretti dello Stato, viceversa in America le sovvenzioni per un teatro non superano il 6% ed il resto è coperto da contributi di privati.
Partendo da questo dato di fatto vorrei riflettere sul perché tali sistemi siano tanto diversi e quale dei due sia migliore.
Il problema potrebbe essere sintetizzato dal dialogo immaginato da un illustre economista della Princeton University e che vede coinvolti un economista senza alcuna nozione culturale e un uomo di cultura che sa ben poco delle regole economiche.
Il primo ovviamente sosterrà che bisogna dare ai consumatori quello che desiderano, quindi se desiderano “spazzatura” nulla vieta che questa sia offerta.
L’uomo di cultura, inorridito, sosterrebbe invece un modello secondo il quale un ente superiore (lo Stato) finanzia le arti nella loro accezione più vasta e meno limitante possibile.
Immaginandoci arbitri in questo dialogo dovremmo tener conto di entrambi i punti di vista: sarebbe bene favorire la qualità della cultura evitando livellamenti verso il basso spinti dalla massa ma sappiamo anche che il denaro è limitato e che è necessario un criterio per selezionare gli investimenti.
A questo punto Tyler Cowen, autore del dialogo, ritorna ad una logica economica ed afferma che la competizione è l’arma migliore per scremare i possibili investimenti culturali e che quindi il sistema americano è il migliore. Perché? Il sistema decentrato Usa è basato sulla deducibilità fiscale delle donazioni rispetto a quello dell’Europa continentale che invece è basato sul sussidio diretto. Grazie a questo modello in America il 60% degli americani dichiara di fare donazioni a istituti culturali deducibili dal reddito: ogni dollaro donato riduce le entrate fiscali tra 28 e 40 centesimi, cioè tra i 26 e i 41 miliardi di dollari all’anno.
Altro aspetto importante: la competizione decentrata per gli investimenti evita che i finanziamenti siano decisi da un ente superiore con criteri non sempre molto chiari e si sono apportate piccole regole sulle norme di selezione per evitare distorsione del mercato (finanziamento della “spazzatura”).
In fin dei conti la differenza tra i due sistemi si sostanzia in quanto i finanziamenti devono essere usati per creare nuova cultura piuttosto che per conservare quella già esistente: in Europa, dove c’è molto da conservare e il patrimonio nazionale è ben chiaro quale sia, l’investimento diretto ha anche un suo senso ma dove c’è una competizione tra manifestazioni culturali non c’è dubbio che il meccanismo indiretto è il migliore (anche perché non è detto che lo Stato sovvenzioni sempre le opere culturalmente più “alte”..anzi..)
Quante sovvenzioni, che ora sono modeste e sparpagliate, sarebbe possibile concentrare su progetti non banali, davvero degni di nota, cambiando il sistema fiscale? Sulla deducibilità fiscale degli investimenti artistici qualcosa è stato fatto ma certo il sistema non è ancora cambiato. Mi chiedo anche a livello di marketing, quanto l’immagine delle imprese potrebbe godere dell’impegno attivo, manifestato e univoco nelle attività culturali.
Andando totalmente fuori il campo culturale e ricollegandomi a vecchie discussioni (“Google poteva nascere in Italia?”) bisognerebbe davvero chiedersi quanto il sistema finanziario, fiscale, contributivo dovrebbe fare per ammodernarsi e stare al passo con i tempi che richiedono innovazione decisa e presa di responsabilità da parte di tutti.
Ilaria Paparella per marketingarena
Fonti: Tyler Cowen “good and planty. The creative success of American art funding” Princeton University press
Il Sole 24 Ore
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