I grandi colossi del web come Google, Facebook, Apple e Microsoft attraverso la personalizzazione di internet stanno minando la libertà di informazione, la nostra creatività, il nostro profilo sociale e culturale. Questo sostiene e cerca di dimostrare il giovane autore americano Eli Pariser nel libro “Il Filtro”.
Sebbene la personalizzazione del web sia un tema già ampiamente trattato, ho trovato questo studio particolarmente interessante in quanto solleva domande che spaziano dal marketing alla sociologia, esplora affascinanti temi di psicologia e fornisce strutturate argomentazioni.
Il concetto cardine su cui si basa l’opera è che nel web esistono filtri (o algoritmi) creati per stabilire chi siamo, cosa facciamo, cosa faremo e cosa vorremmo, sulla base della nostra “vita nella rete”. Il tutto per proporci un’esperienza di navigazione web a nostra misura, personalizzata appunto.
La personalizzazione dell’informazione
Lo scrittore inizia la sua spiegazione citando i 57 indicatori usati da Google – dal luogo in cui siamo, al browser che usiamo fino al tipo ti ricerche che abbiamo fatto – per personalizzare i risultati delle nostre ricerche. Passa poi a Facebook, che, con l’algoritmo EdgeRank, decide quali post compariranno nelle nostre home page. O ancora, e più in generale, tutti i siti web, sopprattutto di informazione, che utilizzano cookies e beacon per customizzare le informazioni che ciascuno di noi visualizza.
Se tutto ciò servisse solamente per vendere pubblicità, sostiene Pariser, non sarebbe poi così grave. Diventerebbe una questione morale, se sia giusto o sbagliato permettere a degli algoritmi di stabilire cosa è più rilevante e cosa lo è meno per ciascuno di noi. A dire il vero, sono assunzioni già di per sè a mio avviso pericolose: quali occhiali dovremmo indossare per leggere le informazioni che ci vengono proposte? Chi pensano che noi siamo?
Internet viene infatti utilizzato sempre più per raccogliere informazioni, da quelle per decidere che prodotti acquistare, a quelle che determinano le nostre opinioni, politiche magari. Ed è su questo aspetto che si basa l’intera ricerca.
Così, partendo dal condivisibile presupposto che per essere liberi dobbiamo poter fare non solo quello che vogliamo ma anche sapere cosa è possibile fare, l’autore associa la personalizzazione ad una sorta di determinismo dell’informazione, nel quale ciò che abbiamo cliccato o visto in passato determina ciò che vedremo in futuro. “Rischiamo di restare bloccati in una versione statica e sempre più ridotta di noi stessi, una specie di circolo vizioso”, precisa Pariser.
Infatti, se da un lato può essere utile veder scomparire tipologie di articoli sulle quali non clicchiamo perchè non siamo interessati, dall’altro non è detto che quello che in apparenza ci piace sia quello che dovremmo sapere in quanto cittadini informati di una comunità. Si parla perciò di un adeguato equilibrio tra personalizzazione servile e personalizzazione paternalistica. Se la prima risponde all’idea “ti dirò tutto quello che vuoi sentirti dire”, la seconda rispecchia il concetto “ti dirò tutto questo, che tu voglia sentirlo o no, perchè devi saperlo”.
La bolla dei filtri
Quando sfogliamo un giornale, leggiamo articoli e saltiamo pagine, sappiamo di aver sorvolato su alcune notizie, su intere sezioni magari. Ed anche se non leggiamo l’articolo, vediamo che c’è un titolo sul PRISM e ci ricordiamo che la privacy è un tema sul quale si sta discutendo. Nella bolla dei filtri non è così: “non vediamo le cose che non ci interessano. Non abbiamo neanche la consopevolezza che esistono, le idee ci sfuggono”.
Soprattutto nel passato quando i profitti dei giornali erano alti, i redattori decidevano quello di cui secondo loro i lettori avevano bisogno, non necessariamente quello che volevano. Sebbene oggi la situazione dei media tradizionali non sia più quella di un tempo, essi continuano a contribuire nel mitigare questa tendenza, mescolando notizie che dovremmo sapere con quelle che vogliamo sapere. Ci spingono cioè ad affrontare il faticoso ma gratificante lavoro di capire i problemi complessi.
La bolla dei filtri tende invece a fare il contrario: cliccare è il nostro io presente, l’insieme di preferenze che riflette necessariamente più quello che vogliamo, di quello che dovremmo vedere. E così, un articolo riguardante le proteste in Brasile potenzialmente non accattivante per un nostro “click”, potrebbe esserci nascosto. Il tutto, all’interno di un processo completamente fuori dal controllo dell’utente.
Un ambiente filtrato potrebbe influire anche sulla curiosità. La curiosità deriva da un senso di privazione, nasce quando ci troviamo di fronte ad un vuoto di informazione. Purtroppo ciò che capita è che la bolla dei filtri ci nasconde le cose in modo invisibile, non siamo stimolati ad imparare quello che non sappiamo esistere.
La morte della creatività
Secondo il modello di Hans Eysenck, inoltre, anche la creatività può risentire di questo servilismo dell’informazione. La creatività, citando Eysenck, è la ricerca dell’insieme giusto di idee da combinare tra loro. Al centro dello spazio della ricerca mentale ci sono i concetti più direttamente collegati al problema che si deve risolvere in quel momento, ma appena ci si allontata si trovano idee che toccano solo tangenzialmente quel problema. Quando ci chiedono di pensare in modo non convenzionale ad esempio, le convenzioni rappresentano l’orizzonte delle soluzioni, il limite dell’area concettuale entro la quale operiamo. In un certo senso, la bolla dei filtri è un orizzonte delle soluzioni fittizio: crea un contenuto informativo altamente rilevante per qualsiasi problema stiamo cercando di risolvere. Quando tuttavia il problema che dobbiamo risolvere richiede la bisociazione di idee collegate indirettamente tra loro, la bolla dei filtri può restringere troppo la nostra visuale.
La scoperta casuale è un valido esempio a supporto. “Scoprire spesso significa svelare qualcosa che è sempre stato li ma era celato ai nostri sguardi dai paraocchi dell’abitudine” dice Arthur Koestler nel libro “L’atto della creazione”. Di certo, anche orizzonti delle soluzioni troppo ampi costituiscono un problema, perchè più idee significano un numero esponenzialmente maggiore di combinazioni.
Probabimente il contesto nel quale il tema della personalizzazione si adatta al meglio è quello americano, nel quale è più facile imbattersi in siti web, oltre ai più popolari motori di ricerca e social networks, nei quali le informazioni vengono di fatto visualizzate secondo il concetto di rilevanza.
Ho apprezzato infine l’approccio sobrio dell’autore, che seppur criticando, ha spesso sottolineato come Google e co. abbiano fatto e stiano facendo molto per rendere il web ordinato e fruibile. Ne ho letto cioè una critica costruttiva, che non sminuisce il valore di questi colossi del web ma pone piuttosto una domanda: “Don’t be evil” potrebbe non essere abbastanza?