Diamo un occhio al futuro del retail per capire come possono i punti vendita fisici dare del filo da torcere ai grandi player online
Sempre più spesso, quando si tratta di acquistare un preciso bene, che sia esso elettronico, editoriale o d’abbigliamento, disponibile su più piattaforme e distribuito in modo estensivo, la routine tende sempre più a convergere a tre step: showrooming in negozio, confronto dei prezzi online, acquisto nel meno caro.
Un comportamento che ovviamente penalizza molti retailer fisici, che non avendo la scala di altri retailer online perdono sulla guerra al prezzo e si lasciano surclassare dagli Amazon di turno, tanto che è pure stato coniata l’espressione “to be amazoned” per descrivere questo fenomeno (To be Amazoned means “to watch helplessly as the online upstart from Seattle vacuums up the customers and profits of your traditional brick-and-mortar business).
Ad ogni modo, come per la maggior parte dei problemi una soluzione diversa dalla guerra di prezzo c’è, ed è la firma editoriale.
Con firma editoriale vado ad intendere una gestione della leva dell’assortimento molto curata, dettagliata e fatta di prodotti difficilmente ritrovabili su larga scala.
La gdo si è mossa da tempo lungo questa direzione con lo sviluppo della private lable (marca commerciale), strumento per differenziare la propria insegna e scappare dalla guerra di prezzo.
Altri retailer di elettronica e di abbigliamento hanno fatto gli stessi passi, ma è chiaro che occorre spesso un brand conosciuto ed affermato, oltre ad una supply chain molto sviluppata e conoscenza dei co-packers non indifferente per mettere tutto in piedi.
Ed allora, una soluzione può essere quella di creare un assortimento che sia in linea con i valori trasmessi dal proprio brand, focalizzato su un target, in modo che sia esso stesso leva esperienziale per il consumatore.
I casi più eccitanti di questa li ho ritrovati nello store del Design Museum e della Saatchi Gallery a Londra.
Infatti essi hanno un assortimento che varia in parte con quanto esposto, temporaneo ed efficace per le vendite, ed al tempo stesso una serie di oggetti, libri, ed altro selezionati ed in linea con la propria brand image.
Ecco quindi che questo mi porta a fare un passo avanti e a pensare che in futuro potremmo vedere sempre meno John Lewis o Selfridges nascere dal nulla (creare un brand così non è un gioco da ragazzi, John Lewis compie 150 anni, e questo la dice lunga), ma negozi creati a partire da riviste, blog o siti web che nel tempo hanno mostrato e condiviso uno stile ed un lifestyle preciso, condiviso o meno.
Quindi con questa riflessione potremmo quasi rispondere ad un’altra domanda che in molti si stanno facendo da un po’: che fine faranno tutte queste fashion blogger, blogger tematici ed altro?
La risposta potrebbe essere, dopo un’ascesa del personal branding in brand e lable, in retail.
D’altronde la fiducia da parte dei propri fan l’hanno acquistata a suon di like e commenti, e cos’è la cosa più importante per un retailer? La fiducia, esatto.