Sabato 13 Ottobre ho avuto il piacere di partecipare al workshop Lean Startup organizzato dai ragazzi di Sharazad nella bellissima cornice della tipografia Lino’s Type, ospitata da The Fab a Verona. Una giornata ricca di stimoli, iniziata con la presentazione dei partecipanti e dei due tutor del corso: Stefano Schiavo di Sharazad e Andrea De Muri grande esperto del modello lean. Un corso diverso, “partecipato”, con una componente ludica non indifferente, che ha messo alla prova noi partecipanti nell’applicazione del metodo lean da diversi punti di vista. Un approccio che abbiamo provato sulla nostra pelle attraverso due giochi di gruppo, finalizzati a trovare una soluzione riducendo il tempo e massimizzando il profitto in più round, con un obiettivo comune e alcune regole da seguire. Durante la giornata abbiamo soprattutto analizzato e messo alla prova noi stessi su due idee di business, divisi in due gruppi di lavoro, completando il lean business canvas model più volte per poi metterlo alla prova del mercato attraverso un’analisi dei rischi, utilizzando una pratica Validation Dashboard. Attraverso questi strumenti abbiamo organizzato e valutato le nostre ipotesi, misurando successi e risultati, per costruire un apprendimento convalidato e discuterne in pubblico attraverso un pitch.
Progettare una start up partendo da un problema tangibile per un possibile cliente, imparare sbagliando ma farlo in fretta e senza sprechi di risorse, riorganizzare il lavoro in base ai feedback ricevuti dalla “messa alla prova” dello stesso, snellire il processo per renderlo più efficiente. Queste sono alcune chiavi di volta del metodo lean start up descritto da Eric Ries e Ash Maurya, applicato al (pre) lancio di una start up, di un nuovo servizio o prodotto. Durante la giornata ho parlato con Stefano, al quale ho sottoposto qualche domanda sul corso e sul modello lean per chiarire alcuni dubbi.
- Parlaci un po’ di The Fab?
Negli ultimi anni attorno a noi c’è stato un grande sviluppo di iniziative rivolte al mondo digitale contaminato da design, creatività e innovazione. Abbiamo però visto che persiste un’evidente frattura tra questo universo e quello delle aziende manifatturiere, degli artigiani del fare, di tutto ciò che è legato alla produzione fisica di prodotti. E’ come se i due livelli non comunicassero e non avessero nemmeno un terreno comune di confronto. Da una parte progetti spesso rivolti al digitale per il digitale, dall’altra interi distretti economici in crisi di identità e visione. Noi veniamo da un’importante esperienza in una realtà che ha coniugato il massimo sviluppo dei contenuti web e design con il meglio della produzione che il nostro Paese sa esprimere. Da questa sintesi è nata l’idea di The Fab, un luogo che riesce a ospitare realtà manifatturiere come la tipografia Lino’s Type, con le sue Heidelberg acquistate da un artigiano del distretto veronese in crisi, artigiano che andava in pensione al termine di una straordinaria carriera e che rischiava di lasciar svanire il proprio saper fare con la chiusura della sua azienda. E qui noi abbiamo innestato la connessione tra queste abilità di artigiani che non hanno più strumenti di interpretazione dello sviluppo sociale ed economico e il mondo dei giovani designer e creativi del web che non trovano spazi di sviluppo e relazione con il tessuto imprenditoriale nordestino. La nostra ricetta e The Fab vogliono mettere insieme il meglio dei fenomeni makers, startup e digital con quanto di maggior valore il nostro territorio sa esprimere, e mi riferisco alla produzione manifatturiera artigiana di alta qualità. In questo modo vogliamo dare un segnale di come possiamo uscire dalla crisi economica con le nostre sole gambe. The Fab è anche un coworking di realtà selezionate e uno spazio per eventi formativi e non solo.
- Come è maturata in voi l’idea di creare un corso con un approccio pratico, più un laboratorio che una classe?
Coerentemente con il progetto The Fab, pensiamo che la didattica debba recuperare il valore del fare. Aule chiuse lontane dai luoghi vivi dell’economia, mirabolanti slide proiettate su uno schermo che gli studenti assorbono passivamente, lunghe spiegazioni teoriche e astratte non sono le modalità giuste per apprendere a sviluppare un’idea. Queste mediazioni sono inadeguate e lontane da ciò di cui ha bisogno chi si trova di fronte a un’urgenza pratica di fare azioni e prendere decisioni. E’ come se insegnassimo a un amico a giocare a carte: dopo brevi tentativi abbandoniamo subito ogni esitazione e cominciamo con un giro di prova in cui guidarlo, rispondendo a dubbi e comportamenti incerti. E’ così che impara il mestiere un artigiano, nel luogo più adatto, su esempi reali e non su improbabili case history.
- Da quali presupposti partire per coinvolgere ed incentivare i partecipanti?
Chi apprende deve interiorizzare un metodo, un approccio mentale all’innovazione in condizione di incertezza quasi totale. Trasformare un’idea in un esperimento, snellire il processo di sviluppo del business, trovare la strada più semplice per testare le proprie ipotesi sono un’attitudine più che un insieme di regole. Se è così solo il gioco, la discussione, la simulazione e il confronto possono attivare meccanismi partecipativi che cambiano i comportamenti e non determinano ricezioni passive di nozioni inutilizzabili.
- Quanto è importante il metodo e il lavoro di squadra nel lancio di una start up?
Nel nostro workshop puntiamo molto a mettere i partecipanti nelle condizioni di interagire con gli altri e ancor più di ragionare sempre a due livelli: un primo più diretto rivolto a ciò che si è prodotto nell’esperienza e un altro rivolto al proprio comportamento e alle proprie sensazioni sviluppate nel corso della giornata. Strumenti e comportamenti vanno in parallelo e costruiscono un’esperienza didattica completa.
- Quanto è customizzabile il business model canvas?
Non solo il modello è customizzabile, ma è in esso implicito un forte grado di personalizzazione. Dobbiamo intendere il canvas come un punto di partenza e una linea guida per un percorso individuale. In qualche modo è auspicabile che questo strumento sia adattato in funzione delle peculiarità che poi sono la forza di ogni organizzazione. Ciò che forse bisogna conservare è quell’idea di alleggerimento, esperimento, iterazione del progetto, che è poi il grande insegnamento che la Lean ci ha portato.
- Quali differenze tra il modello “lean” e quello “tradizionale”?
La Lean mette al centro di ogni iniziativa o attività il cliente. È da questo punto di vista che si identifica cosa è valore e cosa è spreco. Proprio per questo un Lean canvas parte dal l’identificazione di un’esistenza, di un problema e del relativo cliente cui la nostra startup porterà soluzioni. Troppo spesso si parte dall’idea, dall’asset, dalla soluzione e poi si cerca di costruire un mercato attorno a questa. Il modello Lean insegna a non mettere la propria idea al di sopra del l’esigenza del cliente.
- Quali settori sono maggiormente incentivati dal modello lean? Qualche esempio?
Il modello Lean è nato storicamente nel settore automotive e in particolare nella straordinaria esperienza Toyota che è stata capace di definire una nuova filosofia produttiva e strategica che continuava e superava il classico approccio fordista. Da lì però, anche grazie agli studi del Mit di Boston, questo modello ha assunto un carattere più generale che ha visto applicazioni in ogni settore ottenendo grandi risultati anche nei servizi e nella pubblica amministrazione. Nel nostro territorio si è sperimentato l’impatto sui settori manifatturieri, ma la filosofia snella riesce al meglio anche negli ambiti della creatività e dei nuovi business, intrecciandosi, come abbiamo visto nel corso della nostra esperienza professionale, con design thinking e social enterprise.
- A tuo avviso la pretotipazione può essere una soluzione efficace per mettere alla prova un progetto? Per fallire, imparando finalmente senza rimorsi? Potrebbe essere parte integrante del modello lean?
Ci sono degli indiscutibili punti di contatto, ma forse il focus del lean startup è più ampio, nel senso che cerca di dare un approccio alla nuova idea che raccolga alcuni degli insegnamenti di quella gigantesca e quasi inesauribile fonte di prassi manageriali che è il Lean Thinking. La filosofia organizzativa giapponese mediata dal MIT ha cambiato davvero il modo in cui le organizzazioni sviluppano il proprio business introducendo una nuova visione su come leggere mercato, processi e innovazione secondo princìpi nuovi e spesso spiazzanti. Ad ogni modo sarà interessante sviluppare le possibili sinergie tra i due approcci.
- Spesso e volenti l’imprenditore si avvale di questa metodologia in modo troppo verticale (top-down), a tuo avviso potrebbe essere utile e profittevole coinvolgere i propri collaboratori a livello strategico nel lancio di un prodotto/start up o nella sua modifica?
E’ uno dei punti cardine di un approccio lean partire dalla costruzione di team che raccolgano le intuizioni e i suggerimenti di chi è più coinvolto negli aspetti operativi. La distanza tra pensiero strategico e sviluppo nel campo è un grande problema e in questo campo le aziende manifatturiere, cresciute spesso a partire da una collaborazione fianco a fianco tra l’imprenditore e i suoi operai in un sottoscala che ricorda tanto i garage californiani, avrebbero molto da insegnare alle start up digitali.
- Cosa ne pensi della scuola pubblica e del mondo universitario, quali innovazioni bisognerebbe necessariamente apportare?
Il discorso è ampio e complesso. Sul mondo della scuola ricorderei soltanto un grande errore che sta venendo sempre più a galla. Come dimostrano varie ricerche, i ragazzi non si aspettano, contrariamente a Paesi come la Svezia, di lavorare in futuro in ruoli produttivi e manuali. La prospettiva è contemplata da un solo 5% degli studenti contro un quasi 50% di lavori nel nostro Paese legati a questi ruoli. E’ evidente che si sta creando non solo una falsa illusione, ma anche una inconcepibile visione negativa delle nuove generazioni relativamente alle attività manifatturiere, che in realtà sono da sempre forse il nostro maggior patrimonio per il futuro.
- Quali progetti avete in cantiere per il prossimo futuro?
Sarebbe difficile elencarli. Sharazad ha in bacino tanti progetti per la maggior parte ospitati da The Fab, ma anche in contesti nuovi. Siamo stati recentemente selezionati tra i dieci Nuovi Italians da Beppe Severgnini e abbiamo avuto occasione di comunicare la nostra visione all’interno del Festival Città Impresa. Presto avremo occasione di presentarci in altri contesti tra cui la Fiera di Verona, la Fondazione CUOA e varie Università e non solo. Il momento è stimolante e pensiamo di poter portare un contributo alla rinascita del nostro territorio e della sua economia.
Devo ammettere che il contesto e l’approccio pratico di questo tipo di “corso” mi hanno fatto riflettere sulla riproducibilità di questo modello, con approcci modulari e tematiche differenti, in scuole, università pubbliche e piccole medie imprese. Il gioco e la componente ludica, ma anche il pieno sostegno dei due tutor, più coach che insegnanti, favoriscono quel “learning by doing” oggi più che mai necessario per creare passione nell’apprendimento e dare nuova linfa all’insegnamento. Componenti determinanti per connettere un approccio artigianale a tematiche fumose e troppo teoriche, offrendo concretezza, rispolverando tradizioni e storie del nostro tempo. Insomma un approccio più pratico, fondamentale in ambienti di lavoro e formazione; da rivalutare e ottimizzare nelle scuole superiori, soprattutto tecniche e professionali, dove il saper fare significa soprattutto creare passione e interesse, legare lavoro e identità per ricostruire tradizioni professionali in chiave moderna (e digitale), come stanno cercando di fare i ragazzi di The Fab.