Mi trovo negli Stati Uniti da un po’, e sto cominciando a scoprirne usi e costumi.
In questo momento, sto seguendo online l’ordine della pizza che ho appena ordinato da casa… già, quelli di Domino’s Pizza hanno un “Pizza Tracker”: ti dice il nome di chi ha letto l’ordine, quando è stata infornata, etc.. Ecco, l’hanno appena messa nella scatola, ed è pronta a partire.
Che pizza mi arriverà? non certo una pizza buona come una italiana. Soprattutto, mi consegneranno una pizza diversa: già tagliata a spicchi, pronta per essere mangiata senza posate, parzialmente conservata in frigorifero, e successivamente riscaldata in microonde.
Cosa impariamo dalla pizza americana? non serve essere esperti di marketing internazionale per consigliare ai pizzaioli napoletani di non badare troppo alla potenziale concorrenza d’oltreoceano… le esigenze dei consumatori sono talmente diverse che le rispettive formule sono spesso difficilmente esportabili. E poi diciamocelo, dal confronto sul cibo noi italiani ne usciamo in modo clamorosamente vittorioso. Visto che la nostra pizza è migliore, che ci importa di questo “Pizza Tracker” e di tutto il resto?
Ma guardando ad argomenti un po’ più seri, spesso è la sostanza a prevalere sul “resto”: è stato un bel salto passare dal discutere di “baroni” in Italia al mangiare pizza – a proposito, è arrivata – durante i seminari di professori nell’università in cui mi trovo qui negli USA. Piaccia o meno, l’informalità (che spesso è non-forma, indi sostanza), permea un po’ tutto: cultura, attività economiche, fino all’amato e odiato marketing. Ma questo è un discorso più lungo, e la pizza si raffredda…